Indice
Scritti di Amici di Mimmo
- Roberto Finelli
- Amedeo Napoleoni
- Giacomo Di Fiore
- Giuscla Rizzo
- Ciro Di Fiore
- Marcello Lijoi
- Aurora Sebastiani
- Gianvito Iannuzzi
- Gea Palumbo
- Giulia Palumbo
- Lidia Palumbo
- Mariella Palumbo
- Elsa Iannilli
- Lorenzo Brandas
di Amedeo Napoleoni
2. Bacoli, 23 novembre 2013
E' la prima volta che mi trovo qui in questo posto, ma forse ci sono sempre stato,
sono le immagini che Mimmo, in quel lontano giorno, nei tormentati tempi della
metà degli anni settanta, mi ha trasmesso con dovizia di particolari: la baia battuta
dal sole, specchi di acque lacustri e marine divise da una sottile linea di sabbia, il
poderoso castello aragonese, le isole di Procida e Ischia che si distendono in fila e
la vita da bambino tra barche di pescatori le lunghe nuotate. Mimmo era capace di
usare le parole anche come pennellate sulla tela impossibile del reale.
Mio caro amico
abbiamo attraversato mari, sogni e segni di infiniti amori
ora che vago incerto tra i nostri futuri anteriori traditi e un
presente senza la tua presenza consegnata al ricordo inconsolabile
della tua assenza !!!!!
Rimangono le tue pagine piene di poesia e sapienza , i luoghi
ormai muti dei nostri incontri, i lunghi dialoghi, le parole che
mancano come le tue improvvise apparizioni che irrompevano
nella nuda quotidianità sovvertendone il presunto ordine in un
tempo altro di follia e ragione, di felicità e tristezze, ma di un infinito
desiderio per la vita.
Sono sopraffatto dai ricordi, non so a quale episodio riferirmi in particolare tanto la
mia vita era intessuta con tua, nelle assenze e nelle tue, sempre attese presenze,
con tuoi bizzarri e generosi doni, con tuoi scombussolamenti, con tuoi lucidi deliri,
con la tua travolgente sensibilità, con la genialità capace di trasformare il tormento
della vita in poesia, con il tuo impeccabile vestito bianco e le scarpe di vernice nera,
con i tuoi pastrani, con le tue sgualcite camice, con le tue valige e sporte piene di
libri, di scritti e di preziose cianfrusaglie, con i tuoi vagabondaggi senza meta, con
la nostra passione per la politica e la filosofia, con la tua immensa disponibilità, con
la nostra profonda e immortale amicizia.
Remembering Mimmo
A distanza di due anni dalla morte di Mimmo, che è stato l'unico vero testimone della verità che io abbia incontrato nel corso della mia vita, e a proposito del ricordo che di lui a ciascuno di noi viene chiesto, ripenso a un film di Pupi Avati sicuramente per me fra i più rappresentativi del concetto di ricordo, Una gita scolastica. Un'anziana professoressa ricorda gli eventi che accaddero nel giorno in cui si svolse una gita scolastica. Lei era ancora un'alunna adolescente e quella giornata le avrebbe lasciato un segno incancellabile, che sarebbe durato fino alle soglie della morte. Amori, tensioni, tradimenti e strascichi che coinvolsero alunni e professori accaddero tutti nell'arco di quella gita. L'anziana insegnante è l' ultima superstite: quando anche lei sarà morta e raggiungerà tutti coloro che presero parte alla gita e che nel frattempo non ci sono più, nessuno più ricorderà quella gita scolastica. Quei volti e quel giorno, vivi ancora in qualche modo nel suo ricordare, potranno dunque essere definitivamente dimenticati, e spariranno veramente per sempre, una volta che nessuno ci sarà più a ricordarli.
Tale è il nostro comune destino: ricordare quelli che non ci sono più, come loro avevano ricordato quelli scomparsi quando ancora vivevano, e così sarà di noi. Di tutto ciò che avviene ed è percepito può dirsi la stessa cosa. E questo flusso di percezioni e ricordi appassionava Mimmo, e spesso parlava di quell'esse est percipi di Barkeley; esiste una realtà al di fuori della nostra percezione? il tempo che è una forma a priori secondo Kant, al di fuori di noi in che rapporto è con l'insieme di tutti i tempi, l'eternità, se pure possiamo immaginarlo, che è un concetto dis-umano, così come l'in-finito?
Parlare di Mimmo vuol dire parlare di filosofia, nel senso più nobile del termine: non i filosofemi accademici, i vuoti concetti che nascondono la pochezza intellettuale, i sillogismi dei sofisti che miravano a una sterile vittoria sull'avversario, o le scolastiche definizioni che studenti annoiati ripetono senza capire. Quella di Mimmo era filosofia in senso esistenziale e totalizzante, problematizzazione e messa in questione continua del reale, a volte anche irrazionale, irritante, psicotica. Ma nasceva tutto dalla passione della ricerca. Questo era Mimmo, e devo dire che tutti i suoi difetti ed eccessi nascevano sempre dalla domanda spiazzante: perché ci siamo, o, sartrianamente, perché c'è l'Essere piuttosto che il Nulla?
Di queste domande tutti gli amici sono testimoni. Si passava ore intere, notti intere a discutere fino a quando sopravveniva la stanchezza. Io, che sono stato molto vicino a lui in anni lontani, fino a quando poi si trasferì a Roma e si inaugurò un'altra fase della sua vita, ricordo che una sera, doveva essere intorno al '68, ci trovavamo nella zona flegrea e chiedemmo un passaggio a un tipo. Mimmo attaccò a parlare di filosofia, e per un paio d'ore discutemmo con quel tipo, che non ho più rivisto. Io dovevo tornare a casa, a Fuorigrotta, Mimmo invece era diretto a Roma e cercava un passaggio con l'autostop. Ebbene, tale fu il potere della parola del nostro amico, o forse il fermento dei quegli anni in cui tutto sembrava possibile, che quello sconosciuto accompagnò me a casa e Mimmo a Roma, facendo nella stessa notte il viaggio di andata e ritorno, a sue spese ovviamente, discutendo sempre di filosofia. Questo era Mimmo, capace di coinvolgere ognuno in un discorso che riguarda il nostro essere nel mondo, una situazione radicale che la maggior parte delle persone dimentica per tuffarsi nella rassicurante alienazione quotidiana, dove non c'è posto per domande, dove la parola filosofia è solo perdita di tempo, complicazione, inutile sforzo mentale.
Una delle frasi consuete di Mimmo era: se tutto è possibile, allora è possibile che tutto non sia possibile. Certo, la frase ha un che di sofistico, ma anche di giocoso. E il gioco era presente nel modo di fare del nostro amico. Se è vero che spesso era angosciato e non di rado cadeva nella depressione, devo dire che la dimensione ludica era una delle più caratterizzanti della sua personalità. Non solo giochi di parole, calembours, battute fulminanti alla Totò (un attore che amava e apprezzava in tempi non sospetti, quando era considerato con disprezzo un modesto guitto da critici che prediligevano altri generi); ma anche una ironia di fondo che talvolta, quando stava male, si trasformava in aggressivo sarcasmo che feriva l'interlocutore, ma di cui spesso si pentiva, subito o poco dopo, chiedendo scusa. Ma il suo attore preferito, con cui aveva da ragazzo una certa somiglianza era Marcello Mastroianni, e naturalmente il suo regista preferito era più che Ingmar Bergman (mi riferisco al Settimo Sigillo), Federico Fellini, per il quale nutriva quasi una venerazione. Avrò visto quattro o cinque volte con lui 8 e ½, uno dei film che più lo avevano colpito.
Ma devo dire che ricordo soprattutto le lunghe discussioni serali in macchina davanti al mare di Capo Miseno, con altri amici di quei tempi lontani, o sulla spiaggia al chiaro di luna. E a volte scherzava su queste discussioni filosofiche di fronte al mare, rispetto ad altre più note che la storia ci ha tramandato, avvenute in ameni giardini alberati. Allora ricordava la leggenda di S. Agostino che incontrò sulla spiaggia un bambino che voleva svuotare il mare con una conchiglia, o l'Ottavio di Minucio Felice, una conversazione fra un cristiano e un pagano sulla spiaggia di Ostia. Il mare lo affascinava, era il simbolo più immediato e tangibile dell'infinito. In realtà tutto lo affascinava, perché tutto era l'Essere. E l'Essere era al centro della sua passione, della sua ricerca, della sua felicità e dei suoi tormenti. Era sicuramente troppo preso da quello che potremmo definire "sentimento esistenziale" e che gli faceva trascurare l'organizzazione della sua vita quotidiana, della realtà prosaica in cui egli cercava sempre di trovare non dico l'epico, ma il poetico, il barlume di qualcosa che sta sotto l'apparente e il banale. Da questo punto di vista spesso egli sopravvalutava le persone con cui aveva a che fare, giudicandole più di quanto veramente valessero; e non pochi hanno approfittato della sua disponibilità e generosità, perché se qualcuno glie lo chiedeva si toglieva il pane di bocca per darlo a lui.
Ha lasciato molti scritti, messo su carta idee, versi, pensieri, schizzi, appunti, disegni. Tutto in modo disordinato, a volte di getto, a volte con maggior meditazione. Il disordine per lui aveva qualcosa di metafisico, il Caos in rapporto dialettico col Cosmos. E una delle discussioni che amava intraprendere era quello dell'ordine e del disordine del mondo: l'armonia delle leggi che reggono non dico l'universo, ma il nostro più modesto sistema solare era un punto di vista umano, o c'era una adaequatio rei et intellectus?
Di conseguenza, metteva in dubbio la stessa logica che regolava le sue riflessioni. Lungi dall'essere un caposaldo sacro e inviolabile, il principio di non contraddizione gli appariva fragile e indifendibile: ma era consapevole del fatto che non poteva uscire dall'ordine del discoso, dal Circonfondente, dall'Umgreifende di Jaspers che amava spesso citare, come Sartre e Heidegger. Verso questi ultimi ebbe una lunga infatuazione: La nausea, L'Essere e il nulla, Essere e tempo e Sentieri interrotti furono i primi testi della sua formazione, e vi sarebbe rimasto legato e influenzato per tutta la vita.
Certo, di Mimmo possiamo ricordare tanti episodi, belli o brutti; c'erano giorni in cui era affabile o aggressivo, depresso o entusiasta. Ma, anche nella depressione più profonda, era la parola a salvarlo. La filosofia era la sua malattia e il suo farmaco. Bastava iniziare a parlare di filosofia, e immediatamente si infervorava. Non era una persona comune. Se noi siamo qui a parlare di lui è perché, come nel racconto di Borges (un autore che lui amava profondamente per la sua vena metafisica e insieme leggera, e che scoprimmo insieme nella nostra gioventù) L'accostamento ad Almotasim, in ognuno di noi c'è qualcosa che lui ci ha trasmesso, anche se possiamo dimenticarlo a volte. Nel racconto di Borges, un vero capolavoro, si parla della ricerca di un uomo misterioso, di cui si suppone l'esistenza attraverso le tracce che egli ha lasciato in altri uomini che l'hanno conosciuto, anche se non direttamente, e che possono consistere in una parola, uno sguardo, un moto dell'animo. Colui che cerca Almotasim alla fine del suo peregrinare si trova in una stanza davanti a una tenda dietro cui suppone che sia colui che sta cercando. Così finisce il racconto.
4. di Giuscla Claudio Rizzo
Paralipomeni dell'obliquità. Quel che non è stato ancora detto su Mimmo
Dire che Mimmo è Dio è un errore allo stato nascente, è la verità che si corrompe, che entra in altro o che lascia che altro la infranga.
Mimmo non è Dio, ma Dio che diverge, che entra nel tempo e si fa copia di sé; Dio che resta se stesso, ma anche si doppia.
Preso da vertigine nella contemplazione di sé, dà origine ad un suo riflesso che è il mondo di Mimmo, dell'uomo Mimmo, del tempo di Mimmo e, al limite, del mondo in quanto tale.
Ecco sciolto l'enigma dello strabismo di Mimmo, che vede e non vede: in quanto uomo, vede, vede tutto quello che un uomo può vedere; in quanto Dio, non vede.
Vede e non vede; tende ed è limite; si affanna e gode dell'affanno di cui è causa.
Dio immemore, senza passato, senza differenza, punto e contrazione, ma anche sogno, passaggio e dramma.
E' canto e chiasso, vaniloquio e burla, torrente di singhiozzi trattenuti e smorfia, ma anche, silenzio immoto e tetro del dio che non vede.
Dio che non vede, che scoppia di luce, immerso com'è da sempre e per sempre in sé.
Neppure i remoti, i lontani da Mimmo hanno mai saputo che Mimmo è in uno stato di perenne insonnia. Mimmo non dorme, a dispetto dell'opinione e dei prossimi che dall'opinione non possono uscire.
Mimmo che diverge, è nella confusione che è propria dell'insonne e determina l'ordine e la necessità che sono il travaglio, l'industria e l'appetito dell'uomo, cioè della distrazione di Mimmo.
Mimmo, divenuto riflesso e istituito il mondo, si dà anche un nome, il nome di Mimmo, che non è solo un nome, ma la proprietà del turbine, un turbine di esempi da vivere come destini eccelsi.
Nessuno dei prossimi, di quanti, cioè, hanno l'onore e l'ardire di imbattersi in lui, coglie l'occasione. Voltano tutti le spalle, si grattano il culo per far finta di niente e via, vanno via correndo come topi sorpresi.
Ma è noto, cioè, nessuno sa che i topi s'impermaliscono per niente, per via della coda troppo lunga, sottile e traditrice. E allora tradiscono e ammiccano con la sgraziata familiarità dei compari.
Ma Mimmo non può avere compari per l'intima necessità della sua natura; egli, infatti, non vede se non in sé e dà esempi e inventa burle da Calandrino e giochi di carte truccate e bisbocce a volontà e balli licenziosi su tavolate romane e canti d'amore scritti alla svelta sui menù dell'oste suonato.
Questi sono gli effetti di un dio tetro e taciturno, sotterraneo e troppo colto che, tuttavia, perdona, anche se non vede, perdona tutti, contro ogni giustizia umana e si appresta come sempre a dare solennità al mondo dei prossimi che, senza di lui, non saprebbe dove sprofondare.
Mimmo è l'idea, ma anche la sua notte.
E' l'apoteosi dell'inesperienza, della fuga da ogni sapere, se per sapere s'intende la congruenza tra parola e cosa.
Mimmo è l'idea fuori da ogni risonanza, senza eco e senza attrattiva. Ma, d'altro canto, è il mondo, il mondo senza idea, il trascinarsi nella notte sacchi di rifiuti e di regali in cerca di amici.
Tra idea e mondo c'è il vuoto d'istante, l'incrinatura che separa, l'oblio, la balbuzie e l'impasse.
Troppo comodo sarebbe identificare l'esistenza con l'allucinazione, in cui percezione e contingenza s'inseguono girando a vuoto-
La contingenza è ricchezza, è dono di Mimmo che, idea senza corpo, ha eliso ogni senso, l'oppressione del senso e ha invitato gli amici, prossimi e remoti, al pathos di una vita come ballo scatenato sul tavolo dell'oste, come canto improvvisato di amori senza colpa. E'nella gratuità la bellezza del dio ed è nella divinità lo scherno al senso.
Mimmo non si ricompone più, non ritorna più all'unità triste dell'idea piena di sé.
Mimmo si sconfessa come ordine morale del mondo e risonanza infinita di verità.
Mimmo è assolutamente Mimmo, un dio senza mondo o l'istituzione di un mondo senza origine e senza responsabilità.
Perdere Mimmo sarebbe una disgrazia, una contraddizione di natura, ma ciò è impossibile perché siamo tutti nella purezza del suo cuore.
Perdere Mimmo sarebbe l'antinomia divenuta realtà, perché alla divinità cui Mimmo ha rinunciato è subentrato il non senso che dobbiamo imparare ad amare e adempiere.
5. di Ciro Di Fiore
Mitico zio Mimmo
Per quanto abbia cercato a lungo nella memoria il mio primo ricordo dello zio Mimmo, non sono riuscito a trovarlo. Quale potrebbe essere? Mi rivedo, forse piu` di trent`anni fa, piccolo piccolo a giocare con un fortino e dei soldatini in una casa romana di periferia. Possibile? Mah... la memoria sbiadisce, chissa`.... forse un ricordo piu` attendibile e` quello della mensa universitaria. Quando una delle prime volte che venimmo a Roma e che andammo a trovarlo alla facolta` di Filosofia. Poi mangiammo insieme a Giacomino e Gea e i miei fratelli. Ilaria disse che, se non fosse stato per lui, noi non saremmo mai nati. E` vero, fu lui a presentare mamma a papa`.
Ma ritornando alla mensa, per me fu come andare al Ristorante per la prima volta ( a parte forse i matrimoni). Mi ricordo questi piatti di plastica bianchi e le posate che si spezzavano quando le si affondava nella cotoletta. "Ma come, possiamo mangiare pure noi? Non e` riservato agli studenti? " gli chiedevamo. Mimmo rideva.
Ma riandando in avanti di parecchio, ricordo quando una sera d`autunno, io, novello studente universitario, di ritorno da una grandiosa manifestazione a Roma, bussai alla sua porta e gli feci una sorpresa. Lui alzo` lo sguardo, esclamando felice: "Ue`, tu qua stai?". Quando poi nel 2000 mi traferii a Rona spesso Mimmo mi portava a mangiare fuori. Lo andavo a trovare nella sua Biblioteca e poi lui prendeva la macchina dal parcheggio e mi portava nel ristorante sardo vicino Piazza Bologna. Amava gli spaghetti con la bottarga. Diceva che forse gli ricordavano la sua infanzia in Sardegna.
Ma poi diceva che allora era troppo piccolo. Forse anche questo era un "ricordo letterario". Un ricordo che aveva costruito lui influenzato da quelli della nonna Adriana. Mimmo del resto spesso dilatava il tempo. Con lui il tempo bergsononiamente assumeva altri significati. Spesso cercava di rendermi partecipe di queste sue concezioni e provava a spiegarmi astrusi concetti filosofici. Ma io, per quanto mi sforzassi, alla fine confessavo quasi sempre: "Mimmo, mi spiace ... ma non ho capito che vuoi dire". Lui non se la prendeva e sorrideva sornione.
Lo zio Mimmo era un fanatico della mia carbonara e ogni volta che poteva mi chiedeva di cucinargliela. Da quando Franco si era trasferito a Fiumicino, ogni tanto andavamo a trovarlo. Una sera allora facemmo la spesa e andammo a Fiumicino dove gli cucinai la famosa carbonara. Alla fine, pieno come un uovo e raggiante, chiese a me di guidare perché lui aveva bevuto un paio di bicchieri in più. Ma io non guidavo da una vita e declinai. Allora lui si mise al volante, seppure un po` brillo. Di conseguenza, nonostante le indicazione di Franco, ci perdemmo nella campagna romana. Tutto buio, silenzio di tomba, caldo asfissiante e solitari grilli che gracchiavano per le stradine deserte. Nessuna anima a cui chiedere. Lui allora lampeggiò un po` a 360 gradi fino a quando vide in lontananza una fermata del bus: "Hai visto la fermata? Torna indietro a vedere qual è la direzione giusta per Roma! Non posso fare marcia indietro qua" mi suggerì. Io andai e lessi, ma mentre ritornavo alla macchina ecco che vidi un paio di cani randagi che mi inseguivano. Allora urlai: "Mimmo! Metti in moto!" Mimmo, con grande prontezza, si risvegliò e mise in moto, poi innescò la retromarcia e mi riprese al volo. "L`hai scampata bella eh?" rise poi. Fu l`occasione per una discussione sulla bellezza del romanzo di avventura. Mi disse che probabilmente aveva letto troppi libri di filosofia e che ora, da pochi anni, aveva riscoperto la letteratura. Tolstoj e Proust. Io convenni su Tolstoj, ma poi dissi che a Proust forse preferivo London. Lui convenne anche su questo. I grandi romanzi di avventura hanno un significato filosofico innegabile, disse, guardando malinconico la strada buia.
IL MIO MIMMO
6. di Marcello Lijoi
Non c'è cosa più terribile del ricordo, perché il ricordo evoca inesorabilmente qualcosa o qualcuno che non c'è più ed è impossibile che ci sia, o meglio la possibilità che si ripresenti alla mente o alla memoria evoca appunto la mancanza.
E qui non vorrei addentrarmi in una rivisitazione del bergsoniano "materia e memoria" che pure ho letto tra i libri di Mimmo e che lui mi ha dato ed invitato a leggere. Cosa che puntualmente ho fatto, ma più che altro mi piacerebbe parlare della parte finale del libro che è un'appendice dal titolo "l'idea di luogo in Aristotele"; titolo che apparentemente non c'entra nulla con la ponderosa indagine di Bergson sulla natura della memoria e i dati immediati della coscienza, come recita il titolo del volume.
Il titolo dell'articolo mi serve da spunto per i miei ricordi su Mimmo e su di lui a due anni dalla scomparsa. Mi trovo infatti a casa di mio fratello Eugenio e mi viene alla memoria uno di quelli episodi così frequenti nella vita di Mimmo quando ci si frequentava come fratelli di una stessa e strana piccola grande famiglia. Una di quelle volte di inizio estate mi feci accompagnare da lui a casa di mio fratello che si trova a pochi passi dalla piramide Cestia, ed entrando in questa casa in pieno pomeriggio, trovai mio fratello che guardava alla tv un film su Cleopatra (credo che fosse il film con Liz Taylor) e siccome dalla finestra di casa si vede la piramide e quasi contemporaneamente si vedeva anche nella tv, Mimmo esclamò: "ha ecco, siamo nella televisione o nella realtà?". Ecco questo era Mimmo: un gesto ed una parola in un coincidenza perfetta. Non so se credesse alle coincidenze, secondo alcuni non esistono, ma per me Mimmo è stata una coincidenza che come a molti altri di noi che ancora ci incontriamo nel suo nome ed in suo onore, non è possibile che non mi abbia cambiato la vita. Fin da quando lo incontrai una prima volta in vicolo del Leopardo a Trastevere, in un seminario a casa di Lucio Russo a metà degli anni '70. Un seminario sul libro di Foucault: "l'ordine del discorso".
Doveva essere la primavera del '74 e mi ero da poco laureato in filosofia ma il suo intervento in quella sede mi fece subito capire che quella dell'università non era la vera filosofia ma solo pura burocrazia.
Avevo invece incontrato non l'uomo filosofo ma l'unico vero filosofo e ne rimasi totalmente affascinato come un bambino che vede nel padre quello che lui sarà da grande. In quegli anni tremendi e memorabili lui incarnò ai miei occhi l'immagine del padre fratello.
Erano gli anni dell'anti-edipo di Deleuze e Guattari che leggevamo continuamente, allora lui abitava in via Vigevano n. 2 in una stanzetta in affitto in cui ospitava spesso ragazze che erano andate via da casa o che avevano dei problemi, ma su questo tema dei rapporti sull'anti-psichiatria e la filosofia penso abbia già detto molto Gianvito Jannuzzi.
"La vita è imparagonabile" questa è forse una delle sue espressioni più forti che mi è rimasta impressa perché è cosi semplice ed apparentemente banale che non siamo più abituati a sondare gli infiniti sensi che lui continuamente si sforzava di dare a questa frase. Il suo ossessivo sforzo di voler dare senso al tutto: ogni cosa è un ostacolo ma non ogni ostacolo è cosa. Ecco un altro suo motto tipico mentre saliva le scale di Via delle viole.
Proseguo con dei flash, un'altra frase molto bella secondo me è questa sulla natura dei colori: i colori sono degli applausi che la natura fa a sé stessa per celebrare la sua stessa esistenza. Grossomodo questa fu l'espressione che usò quella volta che andammo a festeggiare il primo maggio in quel di Rieti e dintorni. Ma non vorrei restringere i miei ricordi a questi flash pur significativi.
Per me egli incarnava una sorta di io ideale verso cui cercavo di tendere senza mai riuscire ad arrivare alle sue altezze.
Una delle prime battute quando lo andai a trovare a Via Vigevano era: "cosa bisogna fare, restare o partire?" Oppure: "dobbiamo scrivere!".
Ma per tornare al luogo di questo escursus di ricordi un po' tardivi, il luogo non è altro che il posto da cui si parla o si è parlati (come amava dire). Il luogo di ortopedia (ad esempio) è un luogo di ortopedia che condiziona in quanto tale ogni discorso ma non ogni genere di discorsi. Questo penso intendesse suggerirmi Mimmo quando mi fece studiare il testo di Bergson su Aristotele. E' un testo un po' ostico ma importante con cui bisogna confrontarsi per fare un po' di filosofia. In altri termini "l'idea di luogo" (in Aristotele) può essere letto come la base di partenza per capire i siti internet di oggi. E' una forzatura? Credo di no e Mimmo questo lo sapeva bene, tanto da avere una sorta di avversione radicale verso le nuove tecnologie. Era la diffidenza per la tecnica in quanto esito finale della metafisica. Per questo egli prediligeva la scrittura tradizionale con le penne stilo e i quaderni. Non solo, ma si sforzava di fare dell'esercizio della scrittura una vera e propria prosa o poesia creative. Anche per questo poteva sembrare snob o retrò allo stesso tempo ma era indubbiamente molto più originale di tanti scrittori.
E così il suo parlare-dialogare-discutere era appassionato e il suo eloquio fluente, accurato, tanto da possedere un non so che di oracolare.
In conclusione era uno che abitava veramente la parola come gli piaceva dire. Abitare la parola era per lui la cosa più importante, il resto non contava nulla. Illuminanti sono a tal proposito due episodi, uno all'epoca della mia prima conoscenza degli anni '70 quando, frequentando la facoltà di filosofia alla Sapienza, scrisse una sorta di opuscoletto ciclostilato in cui si firmò Mimmo Palumo parosa (parola e cosa), tale era la sua ferma convinzione del nesso inestricabile tra parola e cosa che una volta comminando da Via Vigevano fino alla stazione Termini e passando su Via Castro Pretorio, lesse un'insegna su una finestra al piano terra su cui c'era scritto dott. Adamo Bitter ecc. di corsa entrò in un bar, comprò una bottiglietta di Bitter e la poggiò sul davanzale di quella finestra ed io rimasi di stucco.
La riflessione e la cura del e per il linguaggio è stata una costante del suo modo di essere e di porsi di fronte agli altri e all'Altro; era puro amore per la parola (parola piena e non vacua).
Così quella volta che andammo a trovare un mio amico nei pressi di Farfa e dopo le consuete presentazioni Mimmo si esibì in una miriade di quelle esilaranti ed esaltanti battute, motti di spirito da lasciare interdetto il mio amico che correva alla ricerca di un registratore per registrarlo, verba manent scripta volant, concluse e ce ne andammo.
7. di Aurora
Percorro ancora le strade
Percorro ancora le strade
del tempo in cui eri con me.
Tu mi ascoltavi
pur non essendo certo
di capire.
Era come passando
da un largo viale inondato di luce
alla strettoia oscura via traversa
non ti accorgessi del cammino.
Poi nuove aperture ed ampi spazi
ed io sentivo il tuo coraggio
l'impegno di pensiero.
Che importava esser capita veramente
cos'era il vero?
Luce e buio e dentro questi i nostri passi
allargato il mio cuore
per la salvezza dalla solitudine
per le tue per le mie
libere e generose parole.
