G. Claudio Rizzo. Il filosofo e il poeta. Omaggio a Domenico Palumbo

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G. Claudio Rizzo, Il filosofo e il poeta. Omaggio a Domenico Palumbo

Da qualche parte Beethoven dice in sostanza (nel Testamento di Heiligenstadt?) di essere stato investito già a 28 anni dall'ingiunzione a diventare un filosofo, il che a un artista riesce straordinariamente. Come stanno invece le cose se uno è filosofo e deve sopportare un simile esser-ci in quanto insistenza nella decisione per l'appartenenza alla verità dell'Essere senza poter diventare un artista... Così Heidegger in un frammento dei "Quaderni neri 1938-1939". Ma anche in altri luoghi pone la questione del rapporto tra filosofia e arte e se la filosofia non sia l'arte stessa.
Bisogna rispondere che non si può essere filosofo senza essere artista, né artista senza essere filosofo. La filosofia distinta dall'arte è un'astrazione, una finzione, o un equivoco. Tra filosofia e arte non c'è differenza, l'una è inscindibile dall'altra, né l'una né l'altra può essere e agire senza l'altra; sia l'una che l'altra si raggiunge, si compie, si definisce in virtù dell'altra e nell'altra. Un filosofo, in quanto tale, è necessariamente un poeta, e la sua autenticità consiste tutta nella poesia; un artista è necessariamente un filosofo, e il suo stile, la sua bellezza, la sua originalità stanno interamente nel pensiero. Un filosofo senza poesia non è filosofo, un poeta senza filosofia non è poeta. Non esiste filosofia rumorosa, né poesia vuota: in entrambi i casi si tratta di mistificazione, manca l'essenziale, sia il filosofo che l'artista sono come costretti a creare; ben lungi dal poter volere o non volere, devono, non possono fare a meno, hanno bisogno come di mangiare, bere, respirare, e questa costrizione è la vita stessa, con essa si confonde.

Non si può fingere che queste annotazioni siano accessorie, giacché pensare, sentire, quando accadono, si convertono, si confondono nella vita alla sua origine. Pensare, sentire, creare convergono nel creare, e vi è vita laddove vi è creazione, e vi è indifferenza, inerzia, morte quando viene meno, manca, stenta la creazione. Non sono ammissibili sfumature, mezze parole e sospiri furbi; non si può trafficare in presenza di grandi cuori, di magnanime spinte, di esigenze felici come l'esigenza di dar vita. Non si transige, non si può transigere sulla singolarità di Domenico Palumbo, filosofo e poeta, filosofo in quanto poeta, poeta in quanto filosofo. Transigere significa confondere, misconoscere, annientare. La singolarità di Mimmo sta nella sua generosità, nella sua magnanimità, nella nobiltà dei suoi travisamenti, nell'interpretazione del suo strabismo di cui non si fidava e a cui attribuiva perfide macchinazioni: infatti, credeva che le ombre che vedeva fossero sue ombre, ombre dovute alla sua debole vista e pochezza d'animo, mentre erano e sono il mondo reale che lui tentava di innalzare. Ma Mimmo non sapeva. Sopravalutava le parvenze, attribuiva loro un corpo e una consistenza, un'altezza e una profondità che sono puro miraggio. Rifaceva il mondo. Rifaceva gli uomini e le donne, il giorno e la notte, il cielo e la terra. Ricreava tutto e molto meglio. Dava una grande capacità di amare a perfidi e intriganti, a oche e megere e ai più vili commedianti. Rifaceva il mondo e si doleva della propria nebbia, senza sapere che proprio la nebbia gli consentiva di vedere più in là, lontano e in profondità: non sapeva che le ombre che vedeva erano e sono ombre reali.

Mimmo sognava e truccava. Se quel che vedeva era scialbo e miserevole, si addossava la colpa ingannandosi, ed elevava tutto conferendo equità e dignità. C'è da supporre che in ultima analisi la filosofia, quando è se stessa, cioè quando è poesia, sia pura donazione, arricchimento.

Mimmo vedeva e credeva di non vedere. Immaginava quel che non c'è, si illudeva, fantasticava, vaneggiava. Le correzioni, i cambiamenti che apportava per colmare i suoi presunti vuoti, erano il suo pensiero. Trasformava uomini e cose, condizioni e situazioni, dava serietà, purezza e bellezza a tutto ciò che lo attorniava. Non aveva un'idea di sé; si sentiva sperduto, disperso, a pezzi, "en morceaux " diceva, e non solo fisicamente. Bisognava tornare in sé, trovare la strada, la casa, una guida, e ghignava, una guida che lo rimettesse sulla strada maestra. Tornerò in me, cioè in altro, diceva divertito, con un occhio a sinistra. Tornerò né all'inizio né alla fine, ma sempre e solo a metà della strada, dove tutto è già in movimento. Credeva di essere soccorso da sconosciuti che avevano sbirciato a lungo e avevano fiutato che potevano fare bottino. Mimmo dava e credeva di ricevere; dava soccorso e credeva di essere soccorso; alla fine, derubato, ringraziava; aveva dato tutto e credeva di essere stato salvato. Diceva, salutando, che si sarebbe ricordato di lui, e il ladro fuggiva, non credendo alle proprie orecchie, alla propria buona sorte. Quando raccontava agli amici le sue peripezie, faceva ridere fino alle lacrime e rideva anche lui. Devi riposare, gli dicevano, hai parlato tanto, ti sei infervorato e hai perso di nuovo le chiavi di casa. Mimmo perdeva sempre le chiavi di casa e viveva senza documenti, e, se aveva soldi, li spendeva o perdeva subito. Quanto alla casa, non si può dire che fosse sua. Vi entravano e uscivano gli amici, o meglio, i compari, i vicini, gli sconosciuti, tutti, tutta la città in cerca di qualcosa da mangiare o da rubare. La casa di Mimmo era di tutti, anche di quelli che avevano casa. Spesso accadeva che, dopo essere stato tutto il giorno fuori, trovasse la casa piena di gente addormentata sul divano, sulla poltrona e per terra. La porta era sempre aperta, la sfondava lui o gli altri. Si andava da Mimmo non solo per dormire o cercare qualcosa da mangiare, ma anche per cose noiose, e in questo gli amici del cuore brillavano. Gli chiedevano di scrivere tesi di laurea, i cui argomenti, scelti dai docenti, sono tanto intricati, astrusi e frivoli da raggiungere l'acme della stupidità. E se le cose stupide sono difficili da capire, le cose stupidissime sono difficilissime. Ma Mimmo non si perdeva d'animo neanche davanti alla stupidità.

Essere filosofi significa essere magnanimi, essere magnanimi significa avere un grande cuore, e con un grande cuore si può affrontare tutto, anche la stupidità. Mimmo leggeva, si documentava, faceva ricerche; perdeva il suo tempo e trovava di grande interesse qualsiasi tema da lui trasformato in problema teorico degno di riflessione. Mimmo amava discutere, interrogare, ragionare con gli altri, sembrava che sognasse. Ma tutti si stancavano, si annoiavano o, nel migliore dei casi, si torcevano dalle risa perché legate alle parole di Mimmo ci sono concetti, e i concetti, dicevano gli amici rendono la realtà inaccessibile. Proprio la realtà. Insomma, lo accusavano di astrattezza e credevano di dire qualcosa, anzi, qualcosa di speciale, senza sospettare che la loro opinione, cioè l'opinione comune, ha la peculiarità di non dire nulla. Solo la filosofia coglie la realtà, solo i filosofi hanno un contatto con essa. Ma questo non si poteva dire, e gli amici, in quanto amici del cuore, cioè compari, smettevano di ridere, facevano infine silenzio e, dandogli la ben nota pacca sulla spalla, obiettavano c he non c'è più bisogno di pensare, non c'è più bisogno di affannarsi, tutto è già stato pensato, merito del progresso. La tecnologia, infatti, avanza inesorabile verso la perfezione e, a completo servizio dell'uomo, lo esonera di tutto, anche del pensiero. Di conseguenza, gli proponevano, per non pensarci più, di andare a fare un ricco spuntino. E a Roma che altro si può fare? Certo, è la capitale del mondo, è la più bella delle città, ma è anche e soprattutto il posto ideale per fare ricchi spuntini.

Ma Mimmo non scriveva solo tesi di laurea per i compari, ma considerazioni teoretiche, etiche, estetiche, politiche eterogenee. Mimmo scriveva sempre e dappertutto. Sono innumerevoli i suoi scritti perduti. Sono innumerevoli i taccuini, i fogli, i foglietti sparsi per la città, smarriti, dimenticati, regalati, proposti, o, semplicemente, rubati da altri. Aveva qualche volta pensato di sottoporli a editori per la pubblicazione, ma dimenticava presto questi propositi, ci credeva poco e non dava importanza, o forse, non credeva fossero da pubblicare. Tutti avevano e hanno suoi scritti, ma è difficile credere che qualcuno sappia che farne, come utilizzarli, valorizzarli o trarne profitto. Gli scritti di Mimmo sono incomprensibili, e spesso, anche indecifrabili. Ecco il destino della filosofia: risulta incomprensibile. Mimmo non si faceva capire perché non sapeva comunicare, questa è la sentenza. Pertanto, tutto quello che scriveva, era come se non l'avesse mai scritto; tutto quello che diceva per strada, era come se non l'avesse mai detto. Ma questo per Mimmo aveva un significato era come se non fosse mai esistito. E le risa dei compari, ma anche degli sconosciuti, erano peggio dell'indifferenza. Ma la filosofia non comunica, anzi, inizia dove finisce la comunicazione, e questo spiega le risa dei compari, l'impossibilità di pubblicare e l'esclusione dalle istituzioni. Ma Mimmo, senza alcun sacrificio, senza alcun risentimento, a cuor leggero, opponeva alle pubblicazioni, alle università, alla fama e ai soldi, la strada, le grandi camminate in cerca di amici, le discussioni appassionate su qualsiasi problema. Era un uomo di strada, un autodidatta, un dilettante, poco attendibile, poco affidabile, insomma un vero filosofo, un vero poeta.

Giuseppe Claudio Rizzo

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